Il ciclope Polifemo, di pura stirpe italica, è solo uno dei molti appartenenti alla razza dei giganti, con le sue sottospecie e parentele, che popolano miti e leggende fin dall'antichità.
Il tratto dominante dell'area mediterranea è rappresentato da una sorta di sincretismo mitologico che trova ragion d'essere in una delle caratteristiche fondamentali dei popoli stanziati nella zona: la voglia sempre viva di esplorare lo sconosciuto. L'opera di Omero in tal senso ne è l'emblema.
Il viaggio, lo spostamento, è l'attività privilegiata di questi popoli, di quello greco in particolare; viaggi principalmente a scopi commerciali, per aprire rotte più vantaggiose e sicure, e scovare mercati vergini dove poter vendere i propri prodotti: nulla di nuovo, in fondo. I viaggi marittimi avvenivano prevalentemente tra la stagione primaverile e quella estiva, e in ogni caso era raro che ci si allontanasse dalla costa; accadeva quindi che, durante la navigazione, con un occhio si sfiorasse l'immensità delle acque, ma con l'altro si rimanesse attaccati alla Madre Terra. A questo punto, bisogna considerare un fattore per così dire "geologico" dominante del bacino mediterraneo: la
presenza di eventi vulcanici primari (soprattutto) e secondari.
La combinazione di navigazione a vista e vulcani deve aver prodotto nell'immaginario dei marinai la credenza nell'esistenza di Giganti, enormi esseri viventi i cui occhi erano scambiati per quegli enormi fuochi che ardevano sulle coste.
In area greca esiste poi una leggenda nella quale si vede riflesso il legame tra eventi vulcanici e Giganti: quella che narra del Gigante Talo. Di questo mostro si parla soprattutto nelle Argonautiche, poema epico redatto da Apollonio Rodio (290 - 260 ca a.C) in età ellenistica.

Con la nascita di Zeus si giunse al momento dello spiegamento di una nuova generazione di Giganti, ossia quella che avrà più fama nella mitologia greca: la stirpe olimpica.
Anche in tale mito è ravvisabile un legame con eventi vulcanici, basti pensare al modo in cui combattevano Zeus e i suoi: "...ben trecento massi lanciavan dai pugni gagliardi sempre via via piú fitti, copriano i Titani con l'ombra dei colpi...", terribilmente simile a un'esplosione vulcanica. Inoltre il mito narra che la battaglia decisiva si svolse nel cielo sovrastante la già citata area vulcanica dei Campi Flegrei.
Dunque anche nella "Titanomachia", uno dei miti più famosi e importanti legato ai Giganti, s'intravede riflesso il legame tra leggenda e attività vulcanica, evidente nel modo di affrontare la battaglia (con il lancio di massi e tizzoni ardenti) oppure nella scelta dei luoghi chiave, devastati da cataclismi vulcanici.
Il Gigante pare dunque rispondere a un'esigenza umana, quella di dare alla natura un volto razionale simile a quello umano. Un archetipo quindi, un mito per spiegare quanto non è o non era possibile spiegare.
Il Gigante pare dunque rispondere a un'esigenza umana, quella di dare alla natura un volto razionale simile a quello umano. Un archetipo quindi, un mito per spiegare quanto non è o non era possibile spiegare.
Libro Nono
D’insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l’acuto palo, e in mezzo
Dell’occhio il conficcaro; ed io di sopra,490
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d’ambo i lati le corregge, e attorno495
L’instancabile trapano si volve:
Sì nell’ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio500
Struggeva, uscìa della pupilla, e l’ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell’onda fredda
Attuffò un’ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,505
L’occhio intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l’antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall’occhiaia il trave,510
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de’ monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi515
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
"Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi520
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,525
Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v’ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:530
Ed a me il cor ridea, che sol d’un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
Quelli afferrâr l’acuto palo, e in mezzo
Dell’occhio il conficcaro; ed io di sopra,490
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d’ambo i lati le corregge, e attorno495
L’instancabile trapano si volve:
Sì nell’ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio500
Struggeva, uscìa della pupilla, e l’ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell’onda fredda
Attuffò un’ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,505
L’occhio intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l’antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall’occhiaia il trave,510
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de’ monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi515
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
"Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi520
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,525
Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v’ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:530
Ed a me il cor ridea, che sol d’un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
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