
L'autore è L.Mecacci, docente di Psicologia presso l'Università di Firenze.
Ne propongo, a seguire, alcuni interessanti frammenti:
Gli effetti delle lesioni cerebrali su persone bilingui o poliglotte
Gli effetti delle lesioni cerebrali su persone bilingui o poliglottevariano a seconda del singolo caso, della singola storia. Solo di recente è stato messo un po’ d’ordine nello studio del « cervello bilingue » (Albert e Obler) rivedendo sia tutta la casistica dell’afasia (disturbo del linguaggio) nei poliglotti sia gli esperimenti su soggetti normali. Un dato rilevante è che una lesione dell’emisfero destro produce disturbi del linguaggio solo nell’1-2% dei monolingui, ma ben nel 10% dei bilingui. L’emisfero destro risulta quindi importante, un ausilio fondamentale per l’acquisizione e l’espressione di una nuova lingua. Anzi sembra che esso possa essere dominante per una lingua, mentre il sinistro lo è per un’altra.
Esemplificativo il caso di un uomo d’affari tedesco che parlava, oltre alla lingua materna, il
francese, l’inglese, lo spagnolo e il russo. A quarant’anni rimase ferito all’emisfero sinistro e manifestò disturbi nel linguaggio. Con sorpresa, però, la prima lingua che riacquistò fu l’inglese, una lingua che non parlava da vent’anni, e solo dopo ricominciò a usare lo spagnolo e il tedesco; a quel punto l’inglese divenne più povero della lingua materna. Altri individui invece recuperano prima la vecchia lingua materna, anche se da tempo non la usavano più. Nel cervello dei poliglotti l’intreccio dei circuiti è sicuramente molto complesso. Roman Jakobson, uno dei maggiori linguisti contemporanei, ha ricordato come dopo un incidente d’auto « senza alcuna necessità e in modo automatico » traducesse simultaneamente in quattro e cinque lingue tutto quello che pensava. I circuiti di quel cervello, profondo conoscitore di molte lingue, dovevano essere impazziti.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 33
Il libro dello scienziato Tsunoda “Il cervello dei giapponesi”
Le funzioni cerebrali e le culture dell’Oriente e dell’Occidente è stato un boom quando è comparso nel 1978, perché per la prima volta si generalizzava il significato di studi specialistici sull’organizzazione cerebrale per dare una spiegazione delle caratteristiche della cultura dell’intero popolo giapponese.
In primo luogo la specializzazione emisferica nei giapponesi non corrisponde a quella che di regola si riscontra negli occidentali. L’emisfero sinistro giapponese analizza l’informazione verbale, al pari di quello occidentale, ma compie un’analisi verbale anche su stimoli che per noi non hanno un significato verbale: il fruscio delle foglie, il suono delle onde, il canto degli uccelli e delle cicale, l’abbaiare del cane, e così via. Oltre che per le consonanti, che sono una componente fondamentale nelle lingue occidentali, l’emisfero sinistro giapponese è specializzato per l’analisi delle vocali, le quali sono basilari nella lingua giapponese («Ooo oooo o o oooo» è una frase in giapponese inventata per scherzo da Atuhiro Sibatani che significa pressappoco «Il re qualche volta nasconde il suo seguito» oppure si pensi ai nomi di persona come Aoe, Lo, Ooi, Ui, Ae).
Nel giapponese tutto il mondo dei suoni, della natura e degli uomini, ha un significato verbale, una risonanza emotiva. L’emisfero sinistro è quindi più carico di informazione, sia linguistica che emozionale.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 36
Il cervello dei musicisti
Alajouanine che ci ha lasciato una precisa descrizione della malattia del grande compositore Ravel. La comprensione e l’espressione del linguaggio erano disturbati, ma in particolare era danneggiato in Ravel questo passaggio fondamentale per un compositore: tradurre in parole un pensiero e poi manifestare questo pensiero in parole attraverso dei segni, attraverso la scrittura. Una volta impiegò ben otto giorni per scrivere una lettera di 50 parole al suo amico Maurice Delange per consolarlo della morte della madre. Egli «sapeva» quali pensieri doveva esprimere, ma non riusciva a trovare le lettere e le parole relative. Ci riuscì solo ricercandole nel dizionario francese Larousse. Questo stesso problema si poneva se voleva scrivere la musica.
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Ludwig Van Beethoven |
Il caso di Ravel è interessante perché mette in evidenza una dissociazione netta in generale tra ascoltare, sentire la musica e comporla, eseguirla. Poiché Ravel era destrimane ed era stato colpito da afasia (disturbo del linguaggio), si è ritenuto che questa dissociazione derivasse da un danno all’emisfero cerebrale sinistro (l’emisfero del linguaggio). Mentre con l’emisfero destro riusciva ancora a pensare la musica, a darne una valutazione artistica e, come egli stesso testimoniava, a crearne di nuova, solo con l’emisfero sinistro avrebbe potuto tradurre in uno spartito la sua creazione. Se la creatività musicale quindi è funzione dell’emisfero destro, il linguaggio, sia quello verbale che quello musicale, cioè la capacità di articolare in una sequenza un segno dopo l’altro, una lettera o una nota, spetta all’emisfero sinistro.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 63
La melodia è una forma
La melodia è un insieme di toni isolati che non vengono percepiti separatamente, ma nel loro insieme, come una serie di punti sarà percepita come un triangolo, un quadrato o un cerchio. La forma prevale sui singoli elementi ed essa viene percepita come un tutto.La melodia è stata infatti considerata dagli psicologi un esempio classico di forma che riorganizza gli elementi componenti. Che la melodia venisse riconosciuta dall’emisfero destro era un risultato che si accordava con una concezione diffusa della specializzazione emisferica: l’emisfero destro elabora l’informazione secondo una modalità globale, sintetica, per la quale riconosce una melodia o una faccia nel loro insieme senza un’analisi dettagliata degli elementi particolari; l’emisfero sinistro elabora l’informazione in modo analitico, elemento per elemento, così come accade nell’ascolto di una frase, quando la sua comprensione si realizza attraverso il riconoscimento delle singole parole, dei pronomi, dei verbi, ecc. Questa distinzione è espressa lucidamente nelle parole di Mozart: « Nella mia immaginazione non sento le parti in successione, ma le sento come se fossero tutte insieme in una volta».
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 65
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Il cervello di Albert Einstein |
I processi di pensiero di Einstein
Il pensiero scientifico non dipende da una folgorazione divina la soluzione imprevista di un problema, ma da un processo mentale di riorganizzazione dei dati già acquisiti. Gli studi recenti dimostrano che il pensiero scientifico non è qualche cosa di eccezionale, ma un insieme di strategie e fenomeni che si verificano nel cervello, i quali possono essere potenziati anche in quegli individui in cui non sono ancora pienamente realizzati.
Albert Einstein dette una testimonianza precisa e preziosa dei suoi processi di pensiero, rispondendo al matematico Jacques Hadamard che stava conducendo un’indagine sulla creatività dei matematici:
Caro collega,
qui di seguito cerco di rispondere brevemente alle vostre domande per quanto mi è possibile. Io stesso non sono soddisfatto di queste risposte e desidererei rispondere ad altre domande se credete che ciò possa avere qualche vantaggio per il lavoro interessante e difficile che avete intrapreso.
(A).
Non sembra che le parole o il linguaggio, sia scritto che parlato, abbiano un qualche ruolo nel meccanismo del pensiero. Le entità psichiche che sembrano servire come elementi del pensiero sono certi segni e immagini più o meno chiare che possono essere riprodotte e combinate « volontariamente ».
Naturalmente c’è una certa connessione tra questi elementi e i concetti logici rilevanti. È chiaro pure che il desiderio di arrivare finalmente a dei concetti logicamente connessi è la base emotiva di questo gioco piuttosto vago con gli elementi summenzionati. Ma da un punto di vista psicologico, questo gioco combinatorio sembra essere la caratteristica essenziale del pensiero produttivo: prima c’è qualche connessione con la costruzione logica a parole o altri tipi di segni che possono essere comunicati ad altri.
(B).
Nel mio caso gli elementi summenzionati sono del tipo visivo e qualcuno del tipo muscolare. Le parole convenzionali o altri segni devono essere ricercati con fatica solo in un secondo stadio, quando il suddetto gioco associativo è sufficientemente stabilizzato e può essere riprodotto a volontà.
Prima una forma di pensiero visivo e poi la traduzione dei suoi prodotti in parole o altri segni convenzionali (formule, equazioni, ecc.) per comunicare quei prodotti agli altri individui. Questo processo è ben delineato nell’Autobiografia di Einstein: « Per me non c’è dubbio che il nostro pensiero proceda in massima parte senza far uso di segni (parole), e anzi assai spesso inconsapevolmente ». I segni intervengono nella comunicazione: « Non è affatto necessario che un concetto sia connesso con un segno riproducibile e riconoscibile coi sensi (una parola); ma quando ciò accade, il pensiero diventa comunicabile ».
I processi di pensiero di Einstein furono un argomento centrale del libro di Wertheimer già ricordato a proposito di Gauss. Wertheimer era un intimo amico di Einstein: entrambi professori a Berlino, si trasferirono negli Stati Uniti durante il nazismo. Wertheimer si era basato, per spiegare il pensiero di un Gauss o di un Galileo, su un’analisi retrospettiva. Per il pensiero di Einstein attinse dalla testimonianza del suo stesso « produttore »: « Furono giorni meravigliosi quelli, cominciati nel 1916, in cui ebbi la fortuna di sedere assieme a Einstein per ore e ore, soli nel suo studio, e di udire da lui la storia del drammatico svolgimento di pensiero che culminò nella teoria della relatività. Nel corso di quelle lunghe discussioni feci a Einstein domande dettagliate riguardo gli eventi concreti del suo pensiero. Egli me li descrisse non in modo indeterminato, ma discutendo con me la genesi di ciascun problema».
Nella conversazione di Wertheimer con Einstein si ripresentano le affermazioni sul rapporto pensierolinguaggio (« Io penso assai di rado con le parole: prima ho un pensiero e solo in seguito posso cercare di esprimerlo a parole ») e sulla visualizzazione dei problemi («[.,.] durante tutti quegli anni ci fu la sensazione di una direzione, dell’andare direttamente verso qualcosa di concreto. Naturalmente è molto difficile esprimere a parole quella sensazione [... ] naturalmente dietro a una tale direzione c’è sempre qualcosa di logico, ma in me è sempre presente sotto forma di una specie di sguardo generale; in un certo senso, in modo visivo »).
L’interpretazione che Wertheimer dette del « pensiero che portò alla teoria della relatività » è stata di recente criticata per essere stata più una ricerca « forzata » per convalidare la teoria di Wertheimer stesso sul « pensiero produttivo » che una ricostruzione storica corretta. Wertheimer delineò il processo di pensiero di Einstein come una sequenza di ristrutturazioni concettuali fino alla introduzione di una nuova « visione » del problema determinata dal ruolo primario assunto da un elemento precedentemente secondario (la velocità della luce come costante). Esso sarebbe divenuto la chiave per riconsiderare in una nuova struttura concettuale (la teoria della relatività) tutti gli altri elementi della fisica classica (spazio, tempo, movimento, ecc.).
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 115
Una bambina sordo-cieca impara una nuova parola
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Helen Kelller |
Il brano si riferisce al primo incontro con la maestra Anna Sullivan.
“… io giocai un po’ con la bambola, mentre la signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola « b-a-m-b-o-l-a ». Subito mi interessai al gioco delle sue dita, cercando di imitarlo e, quando, finalmente, riuscii a formare correttamente la parola mi gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e tenendola per la mano formai le lettere della parola bambola. Non sapevo di compitare una parola, anzi, non sapevo neppure che le parole esistessero, ma muovevo le dita, imitando i gesti come una scimmia.
Nei giorni seguenti imparai a compitare in quel modo strano molte parole come: spillo, cappello, tazza, e qualche verbo come: sedere, stare e camminare. Ma mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto che ogni cosa aveva un nome.
Un giorno, mentre giocavo con la bambola nuova, la signorina mi mise in grembo anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò: « b-a-m-b-o-l-a » e cercò di farmi capire che la parola « b-a-m-b-o-l-a » si riferiva a tutte e due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole: « t-a-z-z-a » e « a-c-q-u-a ». La signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che: « t-a-z-z-a » è tazza e « a-c-q-u-a » è acqua, ma io continuavo a confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione, per riprenderla al momento opportuno.
La signorina mi portò il cappello ed io capii che saremmo andate a godere il tepore del sole: questo pensiero, se si può chiamare pensiero una sensazione inarticolata, mi fece saltare e sgambettare per la gioia.
Ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo, attratte dalla fragranza del caprifoglio che lo ricopriva. Qualcuno attingeva l’acqua, e la maestra mise la mia mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano, scandì sull’altra la parola « acqua », dapprima lentamente e poi sempre più presto. Io stavo lì, immobile, tutta intenta al movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi la oscura percezione di qualcosa di dimenticato - un fremito per la ricomparsa di un pensiero sopito - e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii che « acqua » significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano la speranza. Le barriere c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute.
Mi allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose avevano un nome ed ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero.
Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse di una nuova vita. Era perché io vedevo tutto con la strana vista che avevo appena ricevuta.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 129
La scoperta della prospettiva cambia la visione
Essa non cambiò soltanto la maniera di raffigurare e conoscere la realtà negli artisti e negli scienziati. Si modificò di fatto la rappresentazione interna che gli uomini tutti avevano del proprio mondo circostante.
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La Guarigione dello storpio e la resurrezione di Tabitha |
C’è il rischio di affermare che la stampa abbia prodotto una scissione improvvisa tra l’uomo pre-moderno e l’uomo moderno. Di fatto il cammino è stato lentissimo. Il passaggio da una cultura orale a quella scritta a quella tipografica ha abbracciato millenni di storia e non è stato per niente un percorso lineare e progressivo. Alla cultura scritta si affiancava nella stessa epoca la cultura orale, con caratteristiche diverse nelle classi dominanti e nelle classi subalterne, in un intreccio che è stato oggetto di ampia discussione tra gli storici contemporanei. Mi piace ricordare a questo proposito il mugnaio Menocchio, condannato per eresia alla fine del ’500, il cui caso è venuto alla luce in un bel libro dello storico Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi: Il cosmo di un mugnaio del ’500, 1976). Quando gli inquisitori chiesero da dove avesse tratto i suoi pensieri eretici, Menocchio rispose: « quelle opinioni ch’io ho avuto le ho cavate dal mio cervello » e non, infatti, dai libri semplici e teologicamente non pericolosi che risulta avesse letto.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 145
Leggere ad alta voce
Sono rimasto meravigliato venendo a sapere dagli studi recenti sulle forme di comunicazione nel mondo antico che la lettura in silenzio, come molto probabilmente state facendo voi leggendo queste righe, fosse allora rarissima. La sorpresa deriva dalla mia conoscenza dei rapporti tra pensiero e linguaggio (nelle sue forme di linguaggio esteriore e linguaggio interiore) e del loro sviluppo nei primi anni di vita del bambino. Mi potevo aspettare che tra la gente avvezza alla comunicazione orale il libro, una volta diffusosi, servisse sì ad alleggerire la memoria, ma venisse tendenzialmente letto a voce alta. Il fatto è che anche da soli, leggendo per se stessi, la lettura era a voce alta. Questo comportamento era usuale nel mondo antico per cui, nota Havelock, le biblioteche non avevano una sala di lettura, ma praticamente erano solo un deposito, mentre i libri si leggevano sotto il colonnato adiacente.E come rilevava Mc Luhan descrivendo l’uomo pretipografico, i monaci nel Medioevo non dovevano disturbare i compagni leggendo a voce alta nelle loro celle durante il riposo. Mc Luhan citava uno studio di Jean Leclerq, di cui si deve riportare un passo molto interessante:
«Nel Medioevo, come nell’antichità, la gente leggeva non come oggi, principalmente con gli occhi, ma con le labbra, pronunciando quello che gli occhi vedevano, e con le orecchie, ascoltando le parole pronunciate, udendo quelle che vengono chiamate le « voci delle pagine ». Si tratta di una vera e propria lettura acustica; legere vuol dire allo stesso tempo audire [... ]. La conseguenza di ciò è ben più di una semplice memoria visiva delle parole scritte. Il risultato è una memoria muscolare delle parole pronunciate e una memoria uditiva delle parole sentite [... ]. Questa ripetuta masticazione delle parole divine viene talvolta descritta usando la tematica del nutrimento spirituale [... ]. Meditare vuol dire attaccarsi da vicino alla frase che viene recitata e soppesarne le parole per potere penetrare la profondità del loro pieno significato. Vuol dire assimilare il contenuto di un testo attraverso una sorta di masticazione che ne fa uscire tutto il sapore.»
Quando si studiano i rapporti tra pensiero e linguaggio (ci si può riferire anche solo alle trattazioni classiche di Piaget e Vygotskij), si ritiene che il pensiero possa trovare una sua espressione verbale sia in forma di linguaggio a voce alta (come quando un bambino parla da sé, a voce alta, mentre gioca o risolve un problema), sia nella forma ínteriorizzata. È opinione unanime che il linguaggio interiore sia la forma più avanzata, e la più tarda a comparire in età infantile, di pensiero verbale. Qui il linguaggio non è più articolato, esteso, grammaticalmente e sintatticamente organizzato, come nella espressione a voce alta. È invece contratto, senza riferimenti o esplicitazioni superflui per chi parla con se stesso. La lettura a voce alta impegna la mente in operazioni attentive (tono della voce, pronuncia, ecc.) che distolgono la corrente del pensiero dai percorsi evocati dai contenuti del testo. Le ricerche sulla lettura, soprattutto quelle basate sui movimenti degli occhi, hanno dimostrato che il lettore abile non scorre il testo lettera per lettera, parola per parola, ma segue strade diverse: ora anticipa, saltando, le parole o le righe, ora ritorna indietro, in funzione dei contenuti che gli sono noti o ignoti, in funzione delle sue aspettative e del suo interesse. Da pochi frammenti effettivamente letti, la mente può estrarre il contenuto generale. Tutto ciò non è possibile nella lettura a voce alta che richiede un’adesione completa alla sequenza fissata delle lettere e delle parole. Oggi ci sembra quasi impossibile che quando i filosofi del passato riflettevano sui testi dei loro maestri lo facessero leggendo a voce alta, imbrigliando il proprio pensiero.
Se per secoli la rappresentazione del mondo è passata attraverso l’udito, attraverso le parole (« per il poeta epico la parola è il mondo, il mondo che egli descrive tramite la sua poesia », J. Russo), dando una struttura mentale definita a chi quella rappresentazione produce e a chi la recepisce, gradualmente è avvenuta una ristrutturazione in cui l’udito e la memoria hanno acquisito un peso diverso rispetto alla visione, che sarebbe divenuta il perno delle funzioni mentali. Mentre il linguaggio restringeva la sua funzione a strumento della comunicazione interpersonale o del deposito della memoria collettiva nei libri stampati, la visione assumeva il ruolo di strumento di creatività.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 155
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Il regista russo Ejzenstejn |
Diluvio e sua dimostrazione in pittura.
Vedeasi la oscura e nebulosa aria essere combattuta dal corso di diversi venti e avviluppati dalla continua pioggia e misti colla gragnuola, i quali or qua or là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie dell’autunno. Vedeasi le antiche piante diradicate e strascinate dal furor de’ venti; vedeasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, riunare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi, ringorgati, allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli.
Sebbene si trattasse di una bozza da tradurre in pittura, già il testo ha una fortissima connotazione visiva, dichiarata dal « vedeasi » ricorrente. Per Leonardo, giudicata insufficiente la rappresentazione verbale, solo la pittura poteva rendere uno degli avvenimenti fondamentali della storia dell’uomo. Tuttavia la rappresentazione non è ormai solo visiva. Contiene in sé alcune proprietà formali che hanno attirato l’attenzione di Ejzenstejn. Il regista sovietico ha riconosciuto nella descrizione leonardiana un abbozzo di sceneggiatura filmica. La sua interpretazione ci consente di concludere la frammentaria ricognizione di indizi che svelino una trasformazione storica delle funzioni mentali dell’uomo, delle interrelazioni tra percezione, memoria e linguaggio, tra mondo uditivo e mondo visivo. Ejzenstejn finemente notava che nella rappresentazione leonardesca le scene si succedono una dopo l’altra, ora i fiumi che straripano, ora un primo piano degli animali che fuggono, ora delle madri che piangono i figli annegati. Singoli frammenti, fotogrammi che si susseguono, sintetizzandosi nella mente del lettore (la visione del «diluvio universale»), come per il film accade nella mente dello spettatore. Se dell’oralità viene conservata la proprietà di sequenza di elementi (le parole), la novità consiste nella sintesi degli elementi attuata interiormente dalla mente.
La sintesi non è già data dall’esterno, prestabilita nella sequenza orale, ma è un’operazione che viene svolta all’interno dell’osservatore. Ejzenstejn rilevando
le caratteristiche filmiche della descrizione leopardiana («lo stesso metodo di scelta seguito per il montaggio»), poteva sottolineare le proprietà e finalítà della
rappresentazione filmica, richiamandosi alle teorie del suo amico Vygotskij sul linguaggio interiore. Il film, il nuovo strumento di rappresentazione della realtà del mondo contemporaneo, riflette le operazioni dinamiche di sintesi che l’uomo compie tra i singoli frammenti di realtà percepiti nel mondo esterno, tra le immagini che si susseguono nel suo mondo interno. Come direbbero i paleografi, cambia di nuovo il «rapporto di lettura» tra l’osservatore e il testo: la mente non si confronta più con una rappresentazione già confezionata, ma opera attivamente, movendosi come nella sequenza filmica tra i frammenti che può cogliere della realtà. Si rinnova la contrapposizione tra pensiero creativo che produce sintesi e linguaggio che articola e comunica le sintesi prodotte.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 159
Le parole per i colori
Prendiamo come esempio della trasformazione funzionale delle strutture cerebrali il caso dei colori e della scrittura, che abbiamo già esaminato precedentemente.Quando si denomina una certa lunghezza d’onda (« questo è rosso », « questo è giallo », ecc.) si è stabilita, tra le strutture implicate nella decodificazione dell’informazione « lunghezza d’onda » e quelle implicate nelle funzioni linguistiche, una nuova ínterazione funzionale che precedentemente non era già implicita nelle funzioni di queste strutture. Si poteva cioè percepire i colori, senza saperli denominare, e allo stesso tempo si poteva parlare, senza conoscere i nomi dei colori.
Il fatto che il bambino impari a legare le lunghezze d’onda alle parole non è un fenomeno scontato, già programmato nella memoria genetica della specie umana. È una possibilità che viene attuata per l’influenza del contesto sociale in cui il bambino cresce. Quando
vengono insegnati i nomi dei colori, si forma una connessione funzionale tra strutture che hanno già una propria funzione, questa sì geneticamente predeterminata. Rispetto a quest’ultime la nuova connessione, il nuovo « sistema funzionale » (espressione di Vygotskij e Lurija), ha un’origine sociale. Si è già affermato che la connotazione sociale è legata a fattori storici, nel senso che nella storia dell’uomo l’influenza sociale sullo sviluppo dei processi mentali è stata diversa. Così, per i colori, nelle varie culture la denominazione ha avuto un’evoluzione, da un numero ristretto di denominazioni a una gamma sempre più vasta oppure anche regressioni come nel caso dei dialetti in cui si sono persi nomi già acquisiti nella lingua da cui sono derivati. Quando il bambino apprende i nomi dei colori, e forma quindi nel suo cervello nuove connessioni di origine sociale, di fatto è influenzato da fattori più generali di carattere storico - la lingua parlata, la cultura cui appartiene - in relazione all’epoca storica in cui vive.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 161
La scrittura ristruttura la mente
Un sistema funzionale cerebrale di origine storica è inoltre la scrittura. Per scrivere occorre la partecipazione di varie strutture cerebrali, ciascuna delle quali ha una funzione specifica, ma nessuna ha quella della scrittura in sé. La scrittura è infatti funzione di un insieme (sistema) di funzioni che interagiscono dal momento in cui si apprende a scrivere. Senza addentrarci nella descrizione dell’organizzazione cerebrale implicata nella scrittura, basta notare come vi si richieda la partecipazione delle aree del linguaggio (si deve scrivere una parola che già si conosce per averla udita), delle aree visive (si devono conoscere i segni visivi corrispondenti all’informazione verbale uditiva), delle aree motorie (per tracciare i segni specifici sulla carta si deve attuare un programma motorio che la mano esegue). Quando il bambino impara a scrivere mette in interazione queste aree diverse. Anche qui va precisato che le aree hanno funzioni (uditive, visive, motorie) già determinate geneticamente. La nuova funzione (la scrittura) invece si sviluppa solo se il bambino cresce in un contesto sociale dove essa viene « coltivata ». Allo stesso modo che per i colori, la scrittura ha caratteristiche che variano da cultura a cultura e che richiedono un’organizzazione cerebrale spesso particolare. Si ricordino la scrittura giapponese e l’interazione funzionale cerebrale in essa implicata. Nella scrittura è ancora più evidente la storicità di un sistema funzionale cerebrale. Infatti questa nuova funzione si è sviluppata in un dato momento della storia dell’uomo. Da quel momento il cervello, in chi aveva appreso la scrittura, poteva lavorare in modo diverso.Vi sono dunque due dimensioni della storicità del cervello umano. La prima è di lunga durata e si manifesta nelle trasformazioni che le funzioni cerebrali superiori, la mente, hanno avuto nei secoli della storia dell’uomo. La seconda riguarda le differenze tra individui di una stessa epoca. Della prima dimensione vi sono solo documenti artistici e letterari. Ho cercato di darne un esempio accennando alla grande ristrutturazione delle funzioni cerebrali occorsa col graduale avvento della scrittura, dell’alfabeto e con la supremazia del visivo sull’uditivo. Forse c’è molto da scoprire nei documenti antichi sulla mente dell’uomo del passato se sapremo interpretarli nella prospettiva giusta.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 162
Jaynes
Qualche anno fa ha suscitato un certo scalpore il libro dello psicologo Jaynes che, tenendo conto degli studi contemporanei sulle funzioni dei « due cervelli », ha ipotizzato un’organizzazione funzionale cerebrale completamente diversa nell’uomo fino ai tempi dell’Iliade e dell’Odissea. Jaynes ha sostenuto che l’uomo omerico era invaso da continue allucinazioni, particolarmente uditive, interpretate come le voci degli dei, e solo successivamente egli avrebbe acquisito la ragione e la coscienza. Il mondo dei sogni e delle allucinazioni, della poesia e della religione sarebbe stato appannaggio dell’emisfero destro e la coscienza emergente dell’emisfero sinistro. L’uomo moderno sarebbe viceversa dominato dal razionale, dall’emisfero sinistro. Questa tesi si è sposata con quella della dominanza dell’emisfero destro (e delle sue funzioni cognitive ed emotíve) nelle civiltà « primitive » contemporanee. Così è stato facile individuare nell’emisfero destro lo strumento per ritrovare il paradiso perduto dal mondo occidentale, la verità già posseduta dagli antichi e ancora contemplata dalle culture orientali e primitive. L’operazione è stata fin troppo semplice, praticata da chi ben poco sapeva della storia dell’uomo, da chi diveniva fautore dell’emisfero destro allo stesso modo che cominciava a seguire i corsi zen e i nuovi profeti.Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 163
Buona lettura!!
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